A San Damiano d'Asti, domenica 28 gennaio 2018, sono stati premiati due partecipanti al concorso letterario Daneo, della scuola elementare di San Damiano d'Asti : un alunno della classe quinta B e un' insegnante del plesso.
Categoria di partecipazione: "piccoli scrittori- premio Anna Maria Cirio".
Titolo del racconto:"Cosimo alla ricerca."
In un piccolo e grazioso villaggio viveva Cosimo il pappagallo. Una mattina si svegliò prestissimo perché aveva deciso di partire. Era da molto tempo che si sentiva infelice anche se non aveva nessuno motivo per sentirsi così. Era annoiato perché non succedeva mai niente di interessante nel giardino in cui viveva. Tutte le mattine la solita storia, si affacciava alla finestra e vedeva: mamma lumaca che gridava ai suoi piccoli di sbrigarsi per andare a scuola, Ernesto il coniglietto che andava molto veloce avanti e indietro, Gianna la farfalla che faceva il giro dei fiori del prato prima di entrare in classe e infine il signor Rondine ma lui non era tanto simpatico e non parlava con nessuno. Quindi chi poteva vedere Cosimo il pappagallo? Aveva deciso così di andarsene da lì. Cosimo partì e andò in cerca della felicità. Camminò tutto il giorno, quando si fece sera decide di fermarsi e riposare. Si addormentò su un ramo ma ad un certo punto spuntò un corvo, con la voce minacciosa, gli ordinò di andarsene perché quello era il suo ramo. Dove poteva andare ora? Trovò un altro ramo un po’ più in là. E visto che nessuno girava da quelle parti poteva finalmente riposare. Si alzò all’improvviso un’aria molto fredda e gocce giganti caddero dal cielo. Non aveva mai visto un temporale così. Corse a cercare un altro riparo e lo trovò vicino a dei sassi. Si rannicchiò spaventato e si addormentò esausto. La mattina dopo riprese il suo viaggio, camminando giorno dopo giorno. Incontrò sulla sua strada molti animali, anche molto strani, che non aveva mai visto nel suo giardino, ma non erano gentili con lui, non lo consideravano e non gli davano aiuto, volevano fargli del male. Erano passati ormai mesi da quando il pappagallo aveva lasciato casa sua, così decise di ritornare. Camminò giorni e notti senza fermarsi, era impaziente di arrivare e finalmente ritrovò casa sua. Andò a dormire, poi la mattina dopo si alzò, andò alla finestra e guardò, era una bellissima giornata, il sole splendeva. Il pappagallo fece un sospiro profondo e si rese conto di essere molto felice! Che sbaglio aveva fatto! Aveva girato tutto il mondo in cerca della felicità e non si era accorto che la gioia più grande è avere accanto gli amici di sempre ed essere a casa dove tutti ti vogliono bene e ti aiutano.
Alunno quinta b
Categoria di partecipazione Adulti
Titolo del racconto: “Il giorno in cui Sveva parlò”
Traccia scelta: E se ci
accorgessimo che la vita è bella.
Il giorno in cui Sveva si alzò in piedi sulla sedia, nel bel mezzo della classe quinta, lo ricordo bene. Era un venerdì di aprile ed ero arrivata in aula con un sorriso che i miei alunni avevano imparato ad interpretare: a distanza di qualche giorno sarei partita per il sud, in occasione delle vacanze pasquali e avrei finalmente rivisto i colori della mia terra e i miei cari dopo mesi di lontananza e nostalgia. Avevo spalancato le finestre per far entrare il sole con tutta la sua energia positiva e avevo esordito con un “What a beautiful day! Are you ready to start?” Neanche il tempo di finire e di girarmi verso i ragazzi, la vidi alzarsi prima in piedi, con una calma serafica da far spavento e poi sulla sedia, dinanzi a tutti, all’improvviso, senza esitazione e con un piglio a me sconosciuto. Il suo sguardo limpido e feroce restò a fissarmi per qualche secondo prima di parlare e il tempo sembrò fermarsi; i compagni di classe, disorientati, mi guardarono in attesa di una spiegazione che non arrivò mai. Quel giorno aveva indosso un maglioncino magenta decisamente pesante per il clima primaverile e le trecce, come di consueto, disordinate e raccolte in orribili fiocchi rosa pastello. Era evidente che Sveva si vestisse da sola ogni mattina e facesse il possibile per essere in ordine e profumata prima di mettersi in strada da sola e arrivare a scuola. Non aveva orologi e così aveva imparato a regolarsi con i rintocchi del campanile del paese, alle otto in punto si avviava ma la lentezza del passo e lo zaino troppo pesante le impedivano di essere puntuale; i compagni, malgrado i rimproveri, sghignazzavano quando la vedevano arrivare con lo zaino rattoppato mille volte dalle mani sapienti della nonna, con la merenda data frettolosamente sull’uscio di casa per dimenticanza in una mano e un quaderno nell’altra per l’ultima ripetizione prima dell’interrogazione. Era un gioco di equilibri la sua esile ed algida figura, una danza imbranata e dolcissima fino al banco, su cui planava serissima per timore di un richiamo. In silenzio sistemava tutta la sua mercanzia, sopra e sotto il banco, poche cose ma decorose e ben tenute. Quando ero in quinta alla prima ora, aspettavo di
proposito il suo arrivo per iniziare la lezione, pur sapendo che Sveva non
sarebbe intervenuta e sarebbe rimasta chiusa nel suo mondo sibillino e
corazzato fino all’intervallo. Era sua abitudine fare dei disegnini che poi
gettava dopo averli fatti in mille pezzi e senza averli mostrati a nessuno,
questo accendeva un morboso interesse, tanto che i compagni, durante la
merenda, tentavano di ricostruire le sue opere e i suoi codici segreti
raccogliendo quei minuscoli frammenti di carta nel cestino. Fallivano
miseramente ogni volta perché Sveva era brava a distruggere e quell’unica
attenzione che le riservavano le concedeva il lusso di assumere un ghigno
appagato e sicuro. Starle accanto non era facile, l’avevo capito subito, appena
entrai in classe due anni prima. Sveva non chiedeva aiuto ma aveva bisogno d’aiuto,
non comunicava emozioni ma trasudava pulsioni solo a guardarla. Imperturbabile
e distante da tutti noi anni luce, destava curiosità e timore, attraeva i
compagni come una calamita ma il suo infinito silenzio finì per allontanarli
tutti. Il suo abisso era troppo profondo perché altri bambini potessero
comprenderlo ed era troppo volubile perché noi docenti potessimo curarlo. Come
scalfire un muro costruito come barriera verso l’esterno, mattone dopo mattone?
L’esperienza mi ha insegnato che i bambini feriti nell’animo non perdonano gli
adulti disattenti, che i loro occhi vuoti per la mancanza d’amore sono la colpa
manifesta di genitori feroci e immaturi. Ma lei trascendeva da queste
motivazioni, era oltre, era altro. Avevo creato un rapporto di tacita
convivenza con lei, dopo aver tentato ogni strada per farla tornare tra noi,
decisi che il rispetto della sua essenza aliena sarebbe stata la nostra
salvezza, la nostra speranza, la nostra normalità. Non rinunciavo a
coinvolgerla in tutte le attività, non mollavo la presa e lei lo sapeva, sapeva
che per quanto ci provasse a diventare invisibile io avevo nelle mani un potere
più grande del suo: la p assione per il mio lavoro e l’amore incondizionato
verso gli indifesi, verso coloro che urlano pur restando in silenzio. Più
proseguiva nell’intento di sparire, più io le puntavo gli occh i addosso, le
sorridevo, la nominavo, le camminavo intorno poggiando sovente la mano sulla
sua spalla. I compagni accettarono questo compromesso e pur tentando di
instaurare un rapporto di qualche tipo, restarono sempre affamati della sua
amicizia scadendo, ogni tanto, nello sfottò liberatorio proprio dei bambini e
delle loro pulsioni così sincere. Bastava che Sveva alzasse lo sguardo dai suoi
scarabocchi e li guardasse in faccia perché la smettessero, trafitti dall’inquietudine
amara di quegli occhi pervinca. Quel venerdì accadde
qualcosa, una magia inspiegabile, un evento capace di scuotere l’edificio
intero, un uragano che non avremmo mai dimenticato. Sveva si alzò in piedi
sulla sedia ed estrasse un bigliettino dalla tasca del suo jeans strappato,
senza curarsi dello sbalordimento generale e dell’immobilità in cui ci aveva
trascinati tutti iniziò a leggere: “Ho trascorso due anni qui con voi e con te,
maestra, l’anno scolastico sta per finire e siamo in quinta elementare. Ho
delle cose da dirvi prima che arrivi giugno e oggi è la giornata giusta. Due
anni fa, in questo giorno, ho visto morire i miei genitori in un incidente
stradale. Io sono sopravvissuta e i nonni si sono presi cura di me. Non so
perché sia capitato a me, non so perché io non possa ricevere l’abbraccio della
mia mamma o le carezze del mio papà. Perché non possa festeggiare con loro il
Natale o il compleanno e ho odiato tutto e tutti. Anche i miei nonni perché
hanno preso il loro posto senza meritarlo. Anche voi perché parlate sempre dei
vostri genitori con gioia e anche te maestra perché sei diventata mamma e puoi
amare la tua bambina come la mamma amava me. Eppure mi sono accorta che la vita
è bella, che devo essere contenta di poter vedere il sole, la notte e le
stelle, di poter imparare tante cose a scuola, di avere due nonni che mi
vogliono bene. Sono felice di aver incontrato voi e vi ringrazio per avermi
sopportata in questi due anni. Anche se mi avete presa in giro tante volte, lo
so che l’avete fatto senza cattiveria. Voglio ringraziare anche te maestra,
perché non mi hai mai fatto sentire sola e la tua mano sulla spalla la
ricorderò per sempre. Anche se non ho più la mamma e il papà, io sono qui e
voglio restarci e come dice sempre la nonna: loro sono felici se io lo sono. E
questo è quanto. Ora possiamo iniziare la lezione.” Mi guardò negli occhi e per
la prima volta mi sorrise. Il mio cuore ebbe un sussulto violento e restammo
per qualche istante tramortiti e imbambolati mentre Sveva si ricomponeva al suo
posto e riprendeva i suoi disegnini variopinti, tornando nel suo consueto
silenzio. Fu l’unica volta che la sentimmo parlare in due anni. Guardai i miei
alunni, loro guardarono me, qualcuno aveva gli occhi lucidi e nessuno si mosse
o parlò. I bambini sanno molte più cose di ciò che pensiamo e ci superano in
sensibilità. In questo gioco di sguardi complici sentimmo che eravamo dei
privilegiati, avevamo appena assistito a qualcosa che non prevedeva repliche.
Alla rinascita dopo il dolore, alla volontà che supera i confini di ciò che la
mente può concepire. Presi il gesso, lanciai un’ultima occhiata alla mia
piccola grande Sveva, le sorrisi anche se lei non mi vide e dissi con la voce
spezzata dall’emozione: scrivete la data.
insegnante d'inglese: Di Risio Ameliaa cura di Tiziana Toso e Claudia Avidano
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